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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione

traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica [Adelphi, Milano 2006]

Con John Berryman e Robert Lowell, Elizabeth Bishop (1911-1979) è il maggior poeta americano della mid-century generation, la generazione degli scrittori che ebbero vent’anni durante la Seconda Guerra Mondiale o nell’immediato dopoguerra. Leggendo quest’ampia antologia della sua opera, il lettore italiano incontra un modo di rappresentare l’esperienza che si trova di rado nella nostra lirica. Si rimane colpiti dalla fiducia, dalla sicurezza con cui l’io di Bishop si apre alla realtà: nella raccolta d’esordio, North & South (1946), la prima persona si comporta come l’osservatore estroflesso di una realtà curiosa, auratica e centrifuga; nelle raccolte successive parla più spesso di sé, ma tratta la propria vita esattamente come i paesaggi, i personaggi e gli animali, cioè come qualcosa che interessa a prescindere da ogni significato, da ogni trascendenza.

Una poesia simile non esiste nella letteratura italiana del Novecento. Lo scrittore che più si avvicina a questa forma di apertura, il poeta capace di erotizzare le esperienze più disparate e laterali, Umberto Saba, è pur sempre l’autore di un’opera fondata sulla storia di un io, intitolata Canzoniere e pervasa dall’angoscia dell’insensatezza universale. Inoltre l’apertura al molteplice che troviamo in Saba non rappresenta la forma di poesia soggettiva egemone in Italia, per almeno due ragioni. Da un lato, la maggior parte dei lirici italiani – dalla generazione di Sbarbaro, Ungaretti e Montale fino a quella di De Angelis, Benedetti e Anedda – sottopone la realtà a un processo di filtraggio: solo poche cose entrano in poesia e quasi tutte prendono una patina uniforme, vengono come messe in posa.

Dall’altro, è difficile che un poeta italiano parli di esperienze particolari senza osservarle nella prospettiva di una totalità o di un sovrasenso, magari perduti o inesistenti: l’«altra orbita» di Montale, il Dio di Ungaretti e di Luzi, la grande politica e la storia universale di Fortini e di Pasolini, le «toppe solari» e la «città socialista » di Sereni, l’atmosfera di morte che aleggia nell’opera di Raboni. Quando queste trascendenze vengono meno, sul racconto delle vicende personali personali grava un sentimento di marginalità, come accade in Caproni o in Giudici. La grande lirica italiana del Novecento è poesia della coscienza infelice o poesia neocrepuscolare. Per Bishop, invece, le cose, i personaggi, le esperienze singolari non hanno bisogno di essere filtrati, giustificati, legittimati, perdonati al cospetto di una pienezza ontologica che non posseggono.

La realtà viene accolta nella sua pluralità attraente; la pura contingenza non costituisce un peccato, un limite, una tara. Filling Station, che fa parte della terza raccolta di Bishop, Questions of Travel (1965), descrive un distributore desolato e sporco gestito da una famiglia – padre, figli, cane – che sembra condurre una vita alienata e miserabile. Ma in mezzo alla sporcizia, l’osservatore nota un centrino e una pianta: «Qualcuno ha ricamato quel centrino. / Qualcuno annaffia la pianta […]. / Qualcuno ci ama tutti». Queste poesie accentuano un’impressione che si ricava leggendo, con occhi europei continentali, gran parte della letteratura americana del secondo Novecento – una letteratura che sembra aver accettato da tempo la totale immanenza della vita, come se storie e i destini privati fossero l’unico livello di realtà che esiste e che interessa, senza sperare che un altro mondo sia possibile.

Una simile immanenza corrisponde peraltro alla forma di vita che ci è data nello stato di cose presente. Anche per questo, forse, la letteratura americana degli ultimi sessant’anni sembra molto più saggia, molto meno velleitaria della nostra.

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